“… Sabinorum regio egregie ferax est olearum...”, il paese dei Sabini è straordinariamente ricco d’olivi, così scriveva lo storico e geografo greco Strabone nel I sec a.C., di certo impressionato dopo aver percorso nei suoi viaggi le vie che partivano da Roma e si snodavano luminose fra i colli della Sabina.
Da allora sono passati più di venti secoli, ma la storia del- la nostra olivicoltura era iniziata già molto tempo prima, almeno nel VI sec. a.C., come testimoniano fra l’altro i noccioli d’oliva rinvenuti nel corso degli scavi di Cures, il centro che la tradizione romana ricordava come la capitale dell’intera Sabina, città natale di Numa Pompilio ed Anco Marzio, citata da Catone, Varrone e dallo stesso Strabone.
A Roma, principale mercato della produzione olivicola Sabina per la via fluviale del Tevere, nell’antichità si utilizzavano soprattutto le olive, nutrienti e facili da conservare, magari consumate insieme a miele e spezie per andare incontro al gusto dell’epoca. Plinio il Vecchio (I sec.d.C.), nell’elencare le caratteristiche di diverse varietà di olive ne ricorda una detta Regia, specificando che i Sabini la chiamavano Sergia; forse, pur non essendovi chiare testimonianze in proposito, essi facevano riferimento all’attuale Raja, una delle cultivar locali più antiche incluse nel disciplinare di produzione della Sabina DOP.
Per quanto riguarda invece l’olio di oliva, l’impiego alimentare presso i Romani, almeno all’inizio, non era quello più rilevante; avevano appreso probabilmente dai Sabini stessi l’arte della coltivazione dell’olivo ed insieme ad essa anche quella della lavorazione dei suoi frutti, schiacciati su una grande pietra piana con una piccola scalfittura, una canaletta e un foro da cui si raccoglievano poche splendenti gocce, destinate soprattutto a preparare balsami ed unguenti preziosi.
Forse proprio alla conservazione di un balsamo pregiato a base di olio di oliva era destinata la famosa fiaschetta di Poggio Sommavilla (VII sec. a.C. conservata presso il Museum of Fine Arts di Boston), con un’iscrizione che è considerata il più antico esempio di scrittura sabina e testimonianza di una civiltà anteriore a quella romana.
Solo più tardi, intorno al III secolo a.C. quando la coltura dell’olivo si era evidentemente estesa e la produzione di olive era cresciuta, l’olio iniziò ad essere usato più massicciamente per l’alimentazione e per l’illuminazione, sostituendo altri combustibili di origine animale e vegetale, con grande sollievo del naso e degli occhi dei nostri antenati.
I Romani impararono presto quanto fosse importante il contributo dell’olio per conferire sapore e rendere più nutrienti le polente, le verdure e i cereali. L’olio, insieme al vino e al grano, faceva parte del rancio del miles romanus, ma il suo impiego andava ben oltre: durante la stagione fredda, infatti, la dotazione personale di olio aumentava affinché i soldati si potessero difendere dal freddo ungendosi.
L’impiego crescente dell’”oro verde” fece sorgere un’importantissima questione, ancora oggi estremamente attuale, che in breve ci riporterà da Roma in Sabina: la qualità dell’olio. Un olio commestibile deve essere innanzitutto buono, piacevole al gusto, inoltre è importate che sia salubre e nutriente; tutto questo si può ottenere solo rispettando rigorosamente un vero e proprio “disciplinare di produzione”, come quello che Marco Porcio Catone (234 a. C 149 a.C.) incluse nel suo trattato De Agricoltura.
“Olea ubi lecta siet, oleum fiat continuo, ne corrumpatur” scriveva il Censore, “Quando si sia fatta la raccolta delle olive se ne faccia l’olio subito, affinché non si guasti”,per poi proseguire ammonendo “Si in terra et tabulato olea nimium diu erit, putescet, oleum foetidum fiet: ex quavis olea oleum viridius et bonum fieri potest, si tempori facies” Se le olive staranno lungo tempo in terra o sul tavolato puzzeranno e l’olio sarà fetido: di qualunque sorta di olive si può fare un olio ben verde e buono, quan- do si faccia in tempo.
Probabilmente più di un agricoltore Sabino deve aver dato ascolto al vecchio scrittore perché l’olio prodotto sui colli del- la riva sinistra del Tevere godeva di una chiara fama che lo distingueva, già allora da altri, di qualità decisamente inferiore.
Mentre Giovenale (I-II sec. d.C.) infatti nei suoi scritti satirici se la prendeva con l’olio africano, “veleno per i serpenti”, il suo contemporaneo Lucio Giunio Moderato Columella, uno dei maggiori scrittori di agricoltura dell’antichità, oltre a condividere ed arricchire le prescrizioni di Catone, sosteneva con convinzione la vocazione olivicola della terra Sabina: “perciò nei luoghi molto soggetti al calore l’olivo si trova bene sui pendii settentrionali delle colline, nelle regioni fredde sui pendii meridionali. Non ama né le posizioni troppo basse, né le alture eccessive, ma piuttosto i pendii di media altezza e moderati, come ne vediamo in Italia nel paese dei Sabini e in tutta la Betica”.
L’olio acquistava sempre più importanza commerciale, anche perché col crescere di Roma crescevano i suoi impieghi: alimentazione, illuminazione, cosmesi e cura del corpo, lubrificazione meccanica, veterinaria, medicina, lucidatura di legno e metalli.
La produzione Sabina, il cui incremento è testimoniato dal moltiplicarsi di ville rustiche romane nell’area, era decisamente insufficiente, anche sommata alle altre produzioni locali e italiche, le quali, via via che l’impero cresceva, furono affiancate e superate da quelle delle provincie africa- ne e spagnole.
In un’epoca in cui sul mercato romano degli oli si poteva iniziare a scegliere, sposando ciascun olio all’impiego che meglio gli si addiceva, iniziano le prestigiose attestazioni delle qualità terapeutiche dell’olio di Sabina. Il primo loro assertore è stato Scribonio Largo (I sec. d.C.), medico attivo durante il principato di Claudio ed autore delle Compositiones una raccolta di utili ricette mediche, ma colui che più di tutti ha contribuito a rendere celebre la qualità dell’olio sabino è stato Claudio Galeno (II sec. d.C.) medico alla corte di Marco Aurelio e padre della moderna farmacopea, il quale lo definì “il migliore del mondo conosciuto”, giudizio che la tradizione medica ha poi tramandato nei secoli, indicandolo come il più adatto a numerose preparazioni mediche, come hanno confermano generazioni di medici e terapeuti da Alessandro di Tralle (VI sec. d.C.) fino a Pietro Andrea Mattioli (1555), Prospero Borgarucci (1566) e Giovanni Andrea Della Croce, medico veneziano (1583).
La strada da percorrere è lunga, ma soffermiamoci ancora presso i Romani, sia perché, dopo tanti secoli, sono ancora tra i principali consumatori dell’olio della Sabina, sia per- ché dobbiamo alla loro civiltà la messa a punto della basi di una tecnica olivicola che è rimasta pressoché invariata fino al ‘900.
La frangitura delle olive Roma avveniva o per mezzo del trapetum, composto da un grosso mortaio in cui, attorno ad un piccolo asse verticale, giravano una o due mole verticali cilindriche o semisferiche, oppure per mezzo della mola olearia che era formata da una base rotonda e fissa, nel cui centro era fissato il braccio di una macina a ruota che girava intorno al proprio asse in modo che la sua altezza dalla base fosse regolabile, in questo modo i noccioli delle olive non venivano schiacciati: questo era il sistema che Plinio il Vecchio riteneva il migliore e che risultava anche essere il più diffuso in Sabina.
La premitura delle olive avveniva in più fasi successive. Dapprima le drupe erano poste all’interno dei fiscoli, sacchi filtranti ottenuti intrecciando fibre vegetali, e premute con il torchio (torcular) per ottenere l’olio migliore. Dopodiché si svuotavano i fiscoli nella mola e si procedeva alla molitura delle olive già parzialmente schiacciate insieme ad una piccola quantità di sale; la pasta che si otteneva veniva di nuovo collocata nei fiscoli per una seconda ed una terza premitura. Questo procedimento consentiva di ottenere olii di qualità decrescente che Columella raccomandava di non mescolare mai fra di loro.
I torchi erano a leva, a verricello o a vite. La superficie di premitura poteva essere in pietra locale o in mattoncini disposti a spina di pesce. Sul suo bordo vi era poi un canale che serviva a convogliare per mezzo di un becco l’olio misto all’acqua di vegetazione in un recipiente da cui veniva versato in contenitori più grandi dove era effettuata la separazione per affioramento e si poteva eliminare la morchia.
L’olio che si otteneva poteva essere di diverse qualità ed in base ad esse cambiava il suo valore e la sua destinazione d’uso. Le varie categorie di olio, con alcune variazioni fra i vari autori, erano individuate piuttosto chiaramente: Oleum ex albis ulivis era l’olio di altissimo pregio ottenuto da olive ancora acerbe; Oleum viride quello ricavato da oli- ve appena invaiate, anch’esso di alta qualità; Oleum maturum era quello ottenuto invece da olive nere e già ma- ture, di qualità considerevolmente inferiore ai primi due; Oleum caducum, di qualità mediocre, era quello estratto da olive raccolte da terra perché cadute dall’albero per maturazione avanzata; Oleum cibarium, infine, indicava un prodotto di pessima qualità, ottenuto da olive aggredite da parassiti e destinato in parte all’alimentazione degli schiavi e in parte ad altri impieghi non alimentari.
Finché l’Impero crebbe, l’olivicoltura rimase uno dei settori più sviluppati dell’economia agricola romana e la Sabina vide ampliarsi il proprio patrimonio olivicolo, anche perché la rapida diffusione del Cristianesimo, religione mediterranea profondamente legata all’olivo ed alla vite nei suoi misteri e nelle sue allegorie, aveva dato ulteriore impulso al consumo di olio per uso liturgico, richiamando spesso la necessità di approvvigionamento di olio, ovvero di piantagione di olivi, al fine di garantire i luminaria ecclesiae.
Basti pensare infatti che le donazioni fatte da Costantino (272 337 d.C) alle basiliche da lui fondate erano articola- te in due gruppi: da un lato i vasi liturgici e i lampadari, dall’altro i beni immobili relativi. Nella Vita Silvestri ad esempio si citano nove possessi situati in Sabina destinati a S. Lorenzo per l’alimentazione delle lampade della basilica. Nel corso dei secoli successivi, durante la crescita del patrimonio territoriale pontificio, Adriano I, fra il 781 e il 783, rivendicherà l’intero territorio della Sabina utilizzando nelle sue lettere accanto alla formula subsidium et alimentum pauperum Christi, anche la necessità di luminariorum concinnatio, preparazione delle lampade, testimoniando di fatto che la presenza degli ulivi continuava a caratterizzare i colli Sabini, nonostante la scomparsa dei canali di commercializzazione e del relativo indotto produttivo legati alla presenza dell’Impero Romano che erano venuti meno col suo crollo e con le invasioni barbariche.
Mentre l’Impero Romano tramontava, dunque, e l’Italia di- ventava terra di conquista per i popoli del Nord, il centro di gravità ideale dell’olivicoltura sabina si spostò dalla civiltà Romana a quella Cristiana, per trovare un nuovo impulso organizzativo nell’opera tenace e laboriosa dei monaci dell’Abbazia di Farfa, intorno alla quale ancora oggi si possono ammirare decine e decine di nuclei di oliveti plurisecolari. Fondata da Lorenzo Siro nel Vl secolo, distrutta dai longobardi e ricostruita nell’ultimo ventennio del VII secolo da Tommaso di Morienna, Farfa godette della protezione del Duca di Spoleto Faroaldo II e divenne così un’Abbazia Imperiale, svincolata dal controllo pontificio, ma sempre vicinissima alla S. Sede.
Quanto importante fosse l’olivo per l’Abbazia appena rifondata, emerge da alcune delle carte più antiche che riguardano i possedimenti farfensi, contenute nel Regesto di Farfa di Gregorio da Catino, che contengono atti relati- vi ad acquisti o donazioni di oliveti o di singole “talee”di olivo a dimostrazione di quanto prezioso dovesse essere considerato quest’albero nell’area.
Nell’anno 718, vivente il fondatore Tommaso, Barbato e Valeriano chierici e Baroncio, colono, vendono a lui in quanto Abate di Farfa un oliveto di nuovo impianto confinante a Scappligiano e alcune taglie d’ulivi “...olivetum no- vellum quo est iuxta fines scappligiani (...) de alio oliveto olivas tallias numero XII appretiatas...” , pochi anni dopo, nel 740, Trasmondo II, Duca di Spoleto concede al monastero alcune decime, una terra nel fondo Germaniciano e tre taglie d’ulivi nel medesimo luogo, probabilmente nei pressi dell’attuale Corese Terra, dove si trovano tutt’oggi maestosi esemplari di olivi.
Il patrimonio olivicolo farfense crebbe dunque nei secoli, concentrato soprattutto nei territori circostanti l’Abbazia, dunque nel cuore stesso della Sabina, fra l’attuale territorio di Fara in Sabina e quello di Castelnuovo di Farfa.
Naturalmente molte zone restavano acquitrinose, boscose o incolte, e insieme all’olivo non mancavano mai la vite, il frumento o altre colture consociate, come in ogni paesaggio agrario tradizionale, soprattutto in un contesto di economia frammentata, patriarcale e volta soprattutto alla sussistenza locale quale quella che si era configurata in Sabina nell’alto Medioevo.
Impossibile stimare la produzione olearia del tempo, difficile ricostruire le tecniche in uso, ma fonti documentarie e archeologiche testimoniano la presenza in Sabina di una serie di opifici idraulici dislocati lungo il corso del fiume Farfa e dei suoi affluenti, quasi 150 tra la metà dell’VIII e la metà del XII secolo, prevalentemente indicati nelle carte farfensi con le definizioni di molendinum, aquimolum, e molinum: molte di queste strutture erano opifici poliva- lenti, atte a lavorare il grano, l’uva e le olive anche grazie alla stagionalità complementare delle diverse produzioni.
Le mole olearie, continuavano ad essere più diffuse nell’area rispetto ai trapeta: non per niente ancora oggi in Sabina si dice “andare alla mola” o “molire le olive” quando si fa riferimento al lavoro del frantoio.
A partire dall’anno Mille l’olivicoltura Sabina, perlopiù di tipo promiscuo, raramente specializzata, riceve nuovo impulso dal Monastero farfense, che alleggerisce i canoni in natura imposti ai coloni per favorire l’impianto di nuovi olivi, generalmente moltiplicati per talea, metodo tradizionale che fino a pochi anni or sono, prima del vasto diffondersi della pratica vivaistica commerciale, quasi tutti gli agricoltori sabini praticavano, riservando una piccola parte del proprio terreno alla propagazione degli olivi.
In alcuni casi, come accadeva presso il Monastero di S. Salvatore Minore, nel territorio di Scandriglia, sembrerebbe che i monaci facessero “scuola” ai coloni sul modo di colti- vare al meglio l’olivo e altre piante di interesse alimentare.
In un paesaggio agrario frammentato, in cui appezzamenti di terra laici ed ecclesiastici si componevano e si incuneavano gli uni negli altri come tessere di un complesso mosaico, dove i diritti di proprietà erano finemente stratificati, fino al punto di avere tre o quattro proprietari per un solo albero, l’olivo restava il denominatore comune: a volte da solo, a volte alternato a filari di viti o di alberi da frutto, come non è raro vedere ancora oggi, altre volte assieme al grano, o in sparuti gruppi nelle chiuse, di frequente accompagnato da splendide piante di fichi oppure vicino a boschi di querce da ghianda.
Molte chiese di Roma e di Rieti, nei secoli successivi al Mille, continuavano a ricevere dalla Sabina l’olio per l’illuminazione, spesso in forma di rendite; più in generale il mercato romano, data anche la presenza della corte pontificia, continuava a restare il naturale sbocco delle eccedenze produttive sabine. Contemporaneamente continuavano le attestazioni relative alla qualità dell’olio di Sabina ed alla vocazione dell’intera area per la coltura dell’olivo. Il Maestro Johannis Angli Vanningi, scrivendo la sua Storia della Sabina nel 1389 affermava: “Ista regio est pulchra, & omnibus grata propter continuam variationem, quae in quacumque reperitur : ubi montes: ubi colles: ubi valles: ubi planities: aquas sunt bonae: vini delectabiles: & olea praetiosa & prelibata, quia oliva sunt’inter saxa, non autem in terra, quae propter crassitudinem suae minuit saporem fructibus: Inter saxa cum non sit tanta crassitudo , planta dat suum naturalem saporem fructibus: & hoc contingit sabinensibus , qui Romani omnia portantes per flumen. Tiberis , illam gubernant & conservant, & ex aere, & ex cibis romani, & sabinenses sunt inter se quasi similes ” Un olio prezioso e prelibato quindi, quello prodotto in Sabina, da alberi che vivono “inter saxa”, fra le pietre, un olio che raggiungeva soprattutto Roma, per la via maestra del Tevere. In una ricostruzione della storia dell’olivo in Sabina, pur sintetica e parziale come questa, non è possibile trascurare il ruolo della famiglia romana degli Orsini, che fra il XV e il XVI secolo estesero la propria egemonia su Farfa, e costituirono una sorta di stato nello stato in Sabina all’interno del Regno Pontificio. Nello statuto di Montelibretti, perno del loro dominio, era previsto che ogni abitante, oltre a corrispondere tributi in natura, dovesse piantare ogni anno otto alberi d’olivo: probabilmente lo stesso criterio era applicato anche in tutti gli altri castelli da loro dominati, Corese Terra, Nerola, Scandriglia, Montorio, Monteflavio e Cerdomare.
Il commercio dell’olio continuava a svilupparsi in Sabina ed in tutta Italia, tanto che nel XVIII secolo il nostro Paese produceva e vendeva il miglior olio sul mercato europeo, e sempre più cogente si faceva l’esigenza di convertire nuove terre all’olivicoltura, sia per le esigenze del settore alimentare, sia per la nascente industria conserviera, dell’illuminazione, della saponificazione ecc.
L’olio italiano si diffuse rapidamente in tutta Europa, dalla Francia fino alla Russia; tanto grande era la “sete di olio” che nello Stato Pontificio quello prodotto in Sabina, a Tivoli e a Velletri non bastava alle esigenze interne, al punto da indurre Paolo V e Pio VI a vietarne l’esportazione.
Nel corso del ‘700 la coltura dell’olivo non crebbe quanto si desiderava, se ne lamentava il Nicolaj nelle sue Memo- rie, leggi ed osservazioni sulle campagne e sull’annona di Roma, spiegando che spesso i contadini non erano invogliati ad effettuare nuovi impianti per via del costo e del lungo tempo di attesa prima che le piante diventassero produttive; talvolta questo diventava un limite insuperabile, anche alla luce della breve durata degli affitti agrari, spesso inferiori ai nove anni.
Le tremende gelate che si abbatterono sul Lazio nel corso del XVIII sec. resero ancora più critica la situazione: la peggiore, quella del 1709, non fece danni enormi in Sabina, la quale però fu devastata da quella del 1740 e subì in seguito anche i danni di quelle del 1789, 1798 e 1809.
Una relazione del 28 ottobre 1811 del sottoprefetto di Rieti al ministero dell’interno citata dal De Felice specifica che a quella data in Sabina i due decimi delle piante d’olivo esistenti erano molto antichi, un decimo era rinato dal- le radici di quelle gelate nel 1709, i due decimi erano del 1709, un decimo era rinato dalle radici degli alberi gelati nel 1740, un decimo era stato impiantato in quel periodo e tre decimi a metà ‘700.
Fra la fine del XVIII e i primi decenni del XIX secolo tre Pontefici cercarono di porre rimedio alla crisi dell’olivicoltura nello Stato della Chiesa con provvedimenti che incentivassero la piantagione di olivi a scopo produttivo. Iniziò Pio VI con un motu proprio del 1788 che stabiliva la gratifica- zione di un paolo per ogni nuova pianta messa a dimora, provvedimento riconfermato nel 1801 da Pio VII e nel 1830 da Pio VIII.
“Che se mai accadesse che qualcuno portasse danno agli olivi, o studiosamente o per negligente custodia degli animali, vogliamo ed ordiniamo (...) obbligando i danneggianti a pagare non solo le pene comminate dai rispettivi statuti locali, ma ancora a far ripiantare a spese di chi avrà cagionato il danno il doppio numero di piante di olivi...” e ancora “...chiunque farà piantagioni di olivi in tutto il Nostro stato sia premiato di una gratificazione in contanti, pagabile dalla cassa della Nostra camera alla ragione di un paolo per ogni olivo...” (dal motu proprio di Papa Pio VII, 1801).
Lo stesso impegno nell’estendere la coltivazione dell’olivo fu profuso anche dall’amministrazione francese di Roma durante la parentesi napoleonica: i provvedimenti papali furono confermati e vennero liquidati coloro che ne avevano già diritto per aver negli anni addietro piantato nuovi ulivi; ulteriori incentivi vennero poi istituiti dai governi pontifici nei decenni successivi, contribuendo ad un’enorme crescita del patrimonio olivicolo locale. Il risultato fu che la produzione crebbe considerevolmente anche in Sabina, dove esistevano fra l’altro vere e proprie coltivazioni modello a Tarano, Castelnuovo di Farfa, Piediluco e Monteleone.
A questa crescita quantitativa, soprattutto relativamente alle superfici messe a coltura, non corrispondeva sempre però un altrettanto importante miglioramento della qualità. Secondo quanto riportano gli Atti della Giunta per la in- chiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola del 1883, infatti, se da un lato le tecniche di coltivazione erano migliorate in tutto il Lazio, soprattutto nelle aree dove prevaleva la piccola coltivazione, quali quelle collinari della Sabina dove la coltura dell’olivo risultava per circa 5400 et- tari, dall’altro le tecniche e gli impianti di estrazione erano antiquati e inefficienti, con grave detrimento della qualità dell’olio. Questo è un problema di cui si continuerà a par- lare ancora per decenni, ascrivendone le cause soprattutto alla mancanza di associativismo fra produttori con tutte le relative conseguenze: ancora nel 1938, Annibale Savini, presidente del Consorzio Provinciale per l’Olivicoltura di Rieti, in un opuscolo dal titolo Olivicoltura Sabina a cura del Consorzio medesimo scriveva: “I nostri frantoi salvo pochi mirabili esempi ed altri non del tutto condannabili, sono ancora antiquati sia rispetto alle macchine adopera- te come nei riguardi al processo lavorativo eseguito e alla conservazione delle olive.
L’ostacolo principale al progresso degli oleifici è senza dubbio quello finanziario (...) Questi modesti stabilimenti sorgono in piccole unità agrarie, refrattarie congenitamente ad ogni iniziativa associativa...”.
Seguiva una tabella riassuntiva relativa ai 207 frantoi attivi nella Provincia di Rieti, dalla quale risulta che moltissimi impianti erano ancora azionati a trazione animale e che la stragrande maggioranza lavorava la pasta con acqua calda per rendere più efficiente l’estrazione, a scapito però della qualità.
In realtà dalla fine dell’800 e per tutti i primi decenni del ‘900 si era lavorato sia per migliorare la produzione di oli- ve e la qualità dell’olio, sia per promuovere l’innovazione in materia. Un ruolo di rilievo in questo senso fu ricoperto in Sabina dalle Cattedre Ambulanti di Agricoltura, istituti di cultura agricola locali trasformati nel 1928 in ispettorati provinciali dell’agricoltura; rette da un direttore (col titolo di professore) e uno o due assistenti laureati in scienze agrarie più altri aiutanti con varie qualifiche, le cattedre svolgevano attività di istruzione nelle zone rurali mediante conferenze tenute in luoghi pubblici, sopralluoghi presso aziende agricole, consulti dati soprattutto nei giorni di mercato a chi lo richiedesse. Molte delle cattedre pubblicavano anche opuscoli e giornali.
In particolare si deve alla Cattedra di Agricoltura di Poggio Mirteto, fondata nel 1898 insieme al Consorzio Agrario Coop. Sabino, la diffusione in Sabina di metodi razionali e moderni per la potatura, la riforma e la cura degli olivi; ciò avvenne tramite conferenze, opuscoli e soprattutto corsi teorico pratici, composti di più moduli svolti in campo che si tennero dapprima presso il R. Oleificio sperimentale di Spoleto, per poi spostarsi direttamente in Sabina, dove il personale avrebbe dovuto espletare la propria attività: nel 1918 a Poggio Mirteto, nel 1919 a Fara in Sabina per poi ripetersi in varie altre località fino al 1921.
Durante i seminari si insegnava la potatura di formazione, quella di riforma destinata a rimettere in produzione vecchi oliveti trascurati ed altre pratiche quali la rimonda estiva e la slupatura (pulitura dei tronchi dalle parti cariate) “operazione questa completamente sconosciuta prima” come riportato nell’opuscolo “Il Consorzio Agrario Coop. Sabino nei primi 25 anni di vita 1898-1923” pubblicato a Poggio Mirteto nel 1923.
L’importanza del ruolo svolto dalle Cattedre di Agricoltura e dai Consorzi Agrari ed il credito del quale tali istituzioni godevano presso gli agricoltori sabini è confermato dall’istituzione negli anni di varie sezioni della Cattedra di Poggio Mirteto distribuite su tutto il territorio: a Poggio S.Lorenzo, Rieti, Magliano Sabina, nel 1928 anche a Fara in Sabina con giurisdizione, oltre che sul Comune di Fara stessa, anche su Scandriglia, Ponticelli, Toffia e Monte S. Maria, Poggio Nativo, Frasso, Poggio Moiano, Pozzaglia, Orvinio.
Dai pochi soci fondatori iniziali del 1898, il Consorzio Agra- rio Coop. Sabino arrivò a 821 iscritti nel 1923 ed oltre 3000 nel 1948.
Grazie al continuo impulso al miglioramento che veniva da tali istituzioni anche sotto forma di concorsi a premi come quello bandito dal Consorzio Provinciale degli olivicoltori nel 1934/35 molti oleifici della provincia di Rieti, spesso ancora azionati a cavallo o acqua, furono modernizzati diventando stabilimenti azionati da energia elettrica e do- tati di presse idrauliche e di centrifughe: fra gli oleifici più innovativi realizzati in Sabina a partire dagli anni ‘20 ricordiamo quello di Granica (fra Farfa e Montopoli di Sabina) rinnovato dai fratelli Salustri-Galli nel 1913, quello appartenente alla medesima famiglia in località Torre Baccelli (Fara in Sabina) ed infine l’”Oleificio farense” di Canneto Sabino, nato nel secondo dopoguerra. Un contributo non trascurabile alla crescita nel settore olivicolo veniva anche dalla gestione delle terre pubbliche in affitto, dove resisteva l’antico retaggio delle clausole di miglioramento dei fondi assegnati; da segnalare ad esempio che a Fara in Sabina, il cui territorio era ed è tuttora particolarmente ricco di oliveti, vigeva un regolamento relativo agli affitti delle cese (terreni) comunali che prevedeva “l’obbligo ai concessionari di piantare quattro piantoni all’anno per ogni rubbio (1 rubbio = 1,84 ha) di superficie” come emerge da documenti dei primi anni del XX secolo conservati nell’Archivio Storico Comunale di Fara stessa.
Gli stessi governi centrali, sia quelli liberali che quello fascista, promossero iniziative volte ad espandere la produzione olivicola: i sabini parteciparono fra il 1902 e il 1905 ad un concorso bandito dal Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste per l’innesto degli olivastri in Sabina; il Comune di Fara in Sabina fu premiato per aver innestato 1.200 piante e nel Comune di Mompeo se ne innestarono 300.
Il Regime Fascista, che aveva guardato con benevolenza alla Sabina già dal 1923 quando si propose di pianta- re trenta ulivi sabini sul versante orientale del Palatino a Roma, favorì molto l’impianto di nuovi oliveti, sia direttamente tramite concorsi come quello del MAF del 1932, o quello del 1938 per il ringiovanimento e la ricostituzione degli impianti, sia indirettamente istituendo il Consorzio provinciale per l’olivicoltura di Rieti, sia favorendo la formazione di piccola proprietà contadina, ma soprattutto promuovendo forme associative fra produttori agricoli. Alla fine degli anni ‘30 la superficie olivetata della Sabina era cresciuta di molto, superando i 20mila ettari, per un totale di oltre un milione e duecentomila piante, in gran parte in consociazione con altre colture, eccetto là dove il terreno particolarmente roccioso non consentiva altra coltivazione che quella dell’olivo. Il tema della cooperazione fra produttori e dell’associazionismo si è rivelato poi molto importante per la Sabina, soprattutto negli anni successivi, ed oggi stesso riveste un’importanza cruciale per il successo del prodotto di punta della nostra olivicoltura, l’olio Sabina DOP. Le prime forme associative di produttori agricoli risalgono al 1917 quando furono costituiti i “Consorzi antifillosserici” (D.L. 23 agosto 1917, n. 1474) con il compito di combattere i danni provocati dalla fillossera, che minacciava la completa distruzione del patrimonio viticolo nazionale. A partire da quel nucleo originario le competenze dei Consorzi si ampliarono e si specializzarono, estendendosi ad altre colture, fra cui l’olivo. Con la Legge 3 gennaio 1929, n. 94 infatti furono istituiti altri Consorzi per la difesa contro le malattie delle piante coltivate (olivo, ortaggi e fruttiferi), sia in forma volontaria che obbligatoria, con durata temporanea o permanente. Nel 1931 la Legge del 18 giugno, n. 987 affidava ai Consorzi nuovi compiti per assicurare con ogni mezzo il progresso tecnico ed economico del settore produttivo interessato. I Consorzi divenivano obbligatori per legge e la loro amministrazione veniva affidata ad una Commissione nominata dal Ministero per l’Agricoltura.
Successivamente, con il R.D.L. 3 settembre 1932, n. 1225, i “Consorzi per la viticoltura” furono i primi ad essere autorizzati, onde meglio realizzare i loro nuovi compiti economici, a costruire “Enopoli consorziali”, che, oltre a provvedere alla lavorazione sociale delle uve ed al collocamento del vino, avevano anche la possibilità di emettere fedi di credito alla pari dei Magazzini Generali. Lo stesso modello fu seguito per il settore oleario ed alcuni “Consorzi provinciali per l’olivicoltura”, fra i quali quello di Rieti istituirono “Elaiopoli consorziali” sia per la razionale lavorazione del- le olive che per la commercializzazione, la promozione ed il controllo di qualità del prodotto. Ed è così che, alla presenza del Ministro Segni, il 19 settembre del 1948,in occasione della Fiera dell’Olio di Farfa, nello storico borgo sabino viene inaugurata la sede dell’Elaiopolio Consorziale Sabino, una gestione collettiva costituita dal Consorzio Agrario Provinciale ed il Consorzio Provinciale degli Olivicoltori con i seguenti scopi:
- a) difesa e valorizzazione dell’olio tipico di Sabina
- b) offrire al consumo quest’olio nella nativa integrità delle superiori sue caratteristiche fisiche, chimiche ed organolettiche
- c) porre in commercio le altre qualità commestibili sempre di produzione Sabina conferite all’ammasso volontario”
Da sottolineare che, come spiegato in un articolo contenuto nell’opuscolo Olivi ed Olio di Sabina, pubblicato nel 1949 a cura dell’Elaiopolio Consorziale Sabino, per caratteristiche fisiche, chimiche ed organolettiche il più possibile costanti, da avviare direttamente al consumo, in apposite confezioni e con sigillo di garanzia...”.
Un balzo avanti nel futuro che concretizzava con 70 anni di anticipo le attuali scelte in materia di qualità, sicurezza alimentare ed immediata riconoscibilità del prodotto per- seguite oggi dal Consorzio Sabina DOP.
In quello storico punto vendita di Farfa, la “Bottega dell’olio sabino”, era esposta la nuova bellissima lattina disegnata dal reatino E. Mozzetti e realizzata per contenere l’Olio Vergine di Oliva della Sabina: vera antesignana del “packaging unico” che oggi è alla base della riconoscibilità del marchio Sabina DOP sul mercato da parte del consumatore finale.
Nello stesso opuscolo citato sopra si legge un passo che sottende una modernità di visione davvero notevole: “... ogni confezione è munita di un sigillo di garanzia e dell’analisi chimica completa del contenuto, effettuata dall’Istituto Provinciale di Igiene e Profilassi. E’ la prima volta che un prodotto oleario viene messo in circolazione con un regolare atto di nascita e una non meno regolare carta d’identità”
La ripresa dell’Italia dopo la Guerra proseguiva, anche se lentamente; nacque anche il Consorzio Nazionale Cooperative Olearie per promuovere l’olivicoltura nel Paese, poi, iniziò un lungo periodo di ristagno: nel 1956 si verificò una delle peggiori gelate della nostra storia agricola, che distrusse migliaia di piante, poi il triste fenomeno dell’abbandono delle campagne, correlato all’inurbamento e all’industrializzazione di tutto il Paese, colpì anche la Sabina, che si vide così privata di molte giovani energie.
Ma l’idea che l’unica vera possibilità di crescita fosse nell’associazionismo pur così lontano per motivi storico-culturali dall’indole sabina continuò a covare nel cuore di molti e così, nel 1969, venne costituito il COS, Consorzio Oleario Sabino, un’associazione che comprendeva le cooperative di Scandriglia, Selci, Casperia, Ginestra, Cantalupo, Montopoli, Poggio Mirteto e Fara in Sabina ed aveva lo scopo di dare assistenza tecnica, amministrativa, economica e finanziaria, ma soprattutto di favorire la commercializzazione dell’olio. Purtroppo l’esperienza non ebbe l’esito sperato, anzi, col suo fallimento, rese più difficile negli anni successivi far decollare altre iniziative collettive che avrebbero potuto contribuire a migliorare l’olivicoltura sabina.
Seguirono comunque attività, studi, convegni, iniziative, vennero costituite altre associazioni, ma la svolta epocale, quella che ha aperto la strada all’olio della Sabina verso il meritato riconoscimento della sua unicità e del suo grande valore storico, culturale e alimentare, si è verificata il 29 maggio 1995 con il Decreto del Ministero delle Risorse Agricole, Alimentari e Forestali, pubblicato nella G.U. n.142 del 20/06/1995, che riconosceva la denominazione di origine controllata (D.O.C.) Sabina, facendo dell’olio extravergine di oliva “Sabina”, il primo ed unico olio D.O.C. d’Italia.
In seguito, con Reg. (CE) n. 1263 del 01 luglio 1996, giunse il riconoscimento di Denominazione di Origine Protetta (D.O.P.) per l’olio della Sabina prodotto seguendo le norme specificate nell’apposito Disciplinare di Produzione.
La DOP Sabina, è attiva da dicembre 1999 con l’assegnazione dell’Ente di Certificazione (CCIAA di Roma), mentre con D.M. del Mi.P.A.A.F. n. 16106 del 23 ottobre 2009 (G.U. n. 257/2009) è stata attribuita al Consorzio Sabina Dop l’attività di tutela e vigilanza.
Da allora il Consorzio Sabina DOP lavora a tutto campo, anche in sinergia con altri enti e associazioni, per soste- nere e promuovere l’olivicoltura di qualità, proseguendo idealmente lungo il difficile percorso indicato durante 26 secoli di storia da tutti coloro che, con passione smisurata ed enorme tenacia, hanno dedicato la propria vita alla grande tradizione dell’Olio di Sabina.